Ciao a tutti, torno a scrivere dopo taaanti mesi (ma ormai penso vi siate abituati anche ai miei tempi).
Nonostante la mia discontinuità nello scrivere, ricevo sempre complimenti.
Devo ricordarmi sempre i complimenti che mi arrivano sulla newsletter perché spesso anche io cado nella trappola della sindrome dell’impostore: contro ogni metrica e best practice di una newsletter è bene ricordare che spesso non è la quantità ma è l’identità e il contatto 1 ad 1 che riesci a creare attraverso il contenuto. Grazie, comunque. Un po’ di quantità in più non farebbe male (m’impegno, promesso).
A proposito di contenuto, l’altro giorno pensavo che alla domanda “come hai iniziato a fare marketing” rispondo sempre: con un mio blog ma facendo SEO. Invece mi sbaglio. Dal 2009 fino al 2012 ho scritto circa 7.000 articoli e revisionati altrettanti. Tanta SEO certo ma anche “content” e “inboud” (all’epoca non sapevo neanche di farlo). Ma il pensiero è il seguente: oggi sembra che il content sia diventata commodity grazie (per colpa?) dell’AI.
Eppure, come dicono in molti e come penso anche io, le figure senior ed “esperti” saranno posizionati ai vertici della piramide del valore (ancor più di oggi) proprio grazie all’AI. Anche nella content strategy e delivery. Ciò che mi preoccupa non è tanto come io stia affrontando o come affronterò questa trasformazione, il mio pensiero va alle figure junior che, soprattutto nel marketing, penso verranno completamente sostituite dagli agenti AI.
Quindi il tema centrale, ancor di più, sarà la formazione. Non intesa come elenco di risorse, docenti super che vi insegnano cose… ma come metodo didattico che, oltre ad assicurarsi che voi stiate imparando, via dia modo di sperimentare concretamente le cose perché, lì fuori, ci sarà sempre meno tempo per aspettare che voi impariate a fare le cose operative. Ecco, mi guardo intorno, pur lavorando in ambito Education da più di 6 anni (come docente e come manager poi) non vedo realtà che davvero riescano ad accompagnare queste figure junior con programmi ad-hoc. Si cerca invece di rispondere ad una esigenza di mercato per topic non per approccio.
Ma cercherò, nelle prossime newsletter, di approfondire meglio questo discorso.
Anyway.
Vi scrivo rapidamente, di getto (e rigorosamente senza rileggere, impaginare, correggere…scusate) per segnalarvi alcune cose e per farvi riflettere su altre. Ditemi poi cosa ne pensate.
Il mio amico Luca Barboni, uno dei pochi che stimo non solo professionalmente, ha scritto un paper pubblicato sul Journal of Business Research. Topic? Growth Hacking. Un tema che gli accademici neanche sapevano esistesse (scusatemi, ex colleghi). Lo trovate qui e vi consiglio di stamparlo e digerirlo bene. Fuffa free.
Salvate LinkedIn!. Ultimi 6 mesi e più, vedo, anche professionisti che stimo, di un trend davvero noiose: sembra che ci siano solo vittime di una standardizzazione nel modo di scrivere post. Performance driven certamente, dato che la reach sempre più cala ma… anche basta. Post dal tono trionfale camuffati da informativo. Sono sempre più convinto che i post che vanno meglio a livello di reach e di engagement siano quelli meno utili per le persone. Però la gente reagisce e all’algoritmo piace. Non c’è spazio per approfondimenti o cose “pesanti” e soprattutto tecniche > “Commenta per avere l’ultimo framework” (banale, che hanno tutti). “Ti racconto il case senza fare il nome dell’azienda” (eh sì, quanto ci si mette ad inventarlo?). Sempre più rimango a bocca aperta perché, invece, la qualità non viene premiata dai numeri ma… va bene così. Pochi ma buoni.
Il WSJ lo definiva “long thinking” e ne avevo parlato anche io su LinkedIn. Oggi, mesi dopo, tutti i tool di AI hanno un deep search che restituisce contenuti “pensati” e speriamo “pesati” su fonti autorevoli. Ad ogni modo, l’era del contenuti rapidi sempre più calerà.
Non abbiate ansia da tool AI. La corsa all’AI non è uno sprint ma una maratona. Ho spiegato velocemente questo concetto con “il caso Google”.
La rivoluzione che stiamo vivendo è CULTURALE (mettiamocelo in testa) e non
TECNOLOGICA.
La tecnologia corre, la cultura arranca. La cultura non riesce a stare dietro a questo processo e lo scenario classico è l’uso dell’ultimo tool AI senza una piena consapevolezza su fonti e senza capire come l’informazione viene costruita. Questa dinamica sarà ancora più evidente con i motori di risposta basati su AI (es. Perplexity o Google AI Mode), quando questi prenderanno il sopravvento.
Come accediamo alla conoscenza, costruiamo fiducia, formiamo opinioni?
Due problemi grandi grandi temi secondo me.
a) Affidabilità e trasparenza delle informazioni. Chi garantisce la veridicità dei contenuti generati? Chi ne è autore? Qual è la fonte? In un contesto in cui l’IA diventa intermediario tra noi e il mondo, la mancanza di trasparenza genera ambiguità e rischio di manipolazione. Ancora più evidente se governate da colossi tech.
b) Diritto d’autore e proprietà intellettuale: un contenuto generato da IA nasce da dati umani. Ma gli autori originali sono (nella maggior parte dei casi) ignorati o non compensati. Questa cosa è giusta? È sostenibile? Open point.
La risposta è “limitiamo la tecnologia e risolviamo il problema”. Anche no.
Bisogna agire sulla consapevolezza e sulla nostra capacità critica. L’IA non è un sostituto del pensiero. È uno specchio della nostra capacità di farci domande. E oggi la domanda più urgente non è “cosa può fare l’IA?”, ma “cosa possiamo fare noi per usarla meglio?”
Al centro quindi la cultura: riconoscere i bias, distinguere le fonti, pensare con lucidità. Il pensiero critico torni centrale attraverso educazione all’AI e soprattutto un governo etico della tecnologia.1 mese fa, insieme a Matteo Aliotta (a proposito, iscrivetevi alla sua meravigliosa newsletter) e altri colleghi, abbiamo discusso di AI e innovazione digitale. C’era anche il Direttore Generale di Agid Mario Nobile che ha smussato molto gli angoli sulle preoccupazioni rispetto al futuro del lavoro e AI. Io, invece, sono dalla parte dei pessimisti. I’m sorry (spero di sbagliarmi).
Infine, con una grossa nota di tristezza, Skype non esiste più. Lo aveva annunciato e l’ha fatto: Microsoft ha rimosso la celebre app (che con mia sorpresa devo dire, ancora veniva utilizzata -soprattutto nei canali televisivi per i collegamenti-). Perché grossa nota di tristezza? perché sono andato a recuperare contatti e chat (anche se Microsoft aveva dichiarato che sarebbero stati salvati in Teams) ed ho potuto toccare con mano il cambiamento epocale che ho di fatto vissuto negli anni (per i più vecchi, io sono partito con Netmeeting, ICQ e altri) ma soprattutto ho potuto rileggere le innumerevoli chat che avevo con mio papà.
Tutto ciò è meraviglioso e allo stesso tempo mi ha fatto riflettere: come diceva l’ex presidente Kodak “stiamo creando un cimitero tecnologico”. Ed è così… perdiamo dati e ricordi.
Ps: ho ufficialmente iniziato un vita più salutare (pochino di sport, alimenazione più pulita). Piccoli passi. Io sono una persona molto tenace ma ho avuto sempre e solo un punto debole: la gola. Non riesco a fare rinunce, non riesco a raggiungere davvero gli obiettivi di una perdita di peso che mi farebbe bene (sebbene non sono obeso). Ecco, siccome è l’unico obiettivo che mio padre non ha potuto vedere prima della sua morte (e per lui era un grande dispiacere vedere che io non davo peso al benessere a beneficio di tanta priorità sul lavoro), ricordo che 5 anni fa ho fatto una dieta di 4 mesi ed ero diventato un’altra persona: sport al centro, alimentazione impeccabile. Poi è arrivata la pandemia e poi lo stress di un nuovo lavoro ed i lavori di ristrutturazione. Poi gli impegni familiari.
Alla fine però ho capito che sono tutte scuse comunque. Il tempo per mettere al centro le cose importanti c’è sempre, è questione di priorità e organizzazione.
Vediamo se questa volta riesco a rimettere la Chiesa al centro del villaggio, come disse qualcuno.
See you soon.
👌👌👏
Ottimi spunti di riflessione e bellissima la nota finale. Se si vuole, il tempo per sé stessi si trova. Daje Johnny!